Il pigiamino di Nina dentro le lenzuola nel lettino d'ospedale |
Sono trascorse due settimane e mi sembra che sia
trascorsa già un’eternità. Si doveva fare, prima o poi e così quel giorno è
arrivato. Lo avevo immaginato sin dal momento in cui aveva avuto la sua prima
gastroenterite ed i gemelli della mia amica finirono entrambi in ospedale. Io non
sono riuscita ad immaginare come sarebbe stato per me ritrovarmi in una stanza
d’ospedale con una bimba piccola a dover stare attenta che non combinasse
casini con l’ago della flebo o a dover ritrovarmi a cercare oggetti sul
comodino, a terra, ovunque o non trovare il bagno o non riuscire ad afferrare
in tempo qualcosa che qualcuno mi porgeva…
Sono trascorsi invece dieci anni. Adenoidi e tonsille
avevano ormai le dimensioni di due arance (tonsille) e olive ascolane
(adenoidi) e dovevano necessariamente essere tolte e questo avrebbe comportato
un ricovero ospedaliero.
Ogni mamma tra virgolette normale si preoccupa solo ed
esclusivamente dell’intervento. Di comprare il corredo nuovo per l’ospedale, di
programmare le giornate di lavoro e di rassicurare il proprio figlio o la
propria figlia. Nel mio caso le cose cambiano, c’è una piccola variazione e le
preoccupazioni si amplificano.
Incominciamo da Nina: non ha niente che non va ma è
eccessivamente emotiva, non le piacciono gli scherzi, il sarcasmo, la fanno
sbarellare le contraddizioni e fondamentalmente se inizia una domanda deve
arrivare fino alla fine anche se dovesse esserci il giudizio universale in
corso. Semplicemente questo, niente di più. I problemi iniziano quando qualcuno
ci spiega che bisogna restare anche la notte. Dico che resto io perché sono la
mamma
MA…
“Sono una mamma che non ci vede molto bene, mi chiedevo e
vi chiedevo se sia possibile la presenza di un’altra persona oltre la mamma”
“Faccia restare solo la nonna allora”
Mi rispondono.
No. Sono io la mamma, perdonatemi non voglio fare l’egoista,
voglio sono stare accanto a mia figlia, e chiedo solo la presenza di una persona
in caso di necessità.
Il primario dapprima mi dice che dovrebbe restare la
nonna ma quando spiego che ho la retinite pigmentosa lui si sente rassicurato
(ma non so perché)
Mi dice che non ci sono problemi, resto solo io perché non
c’è spazio per far stare un’altra persona e che comunque il personale
infermieristico verrà avvisato della mia (nostra) presenza e se dovessi avere
bisogno non esiteranno a darci una mano. Ma poi per il corridoio incontro la caposala,
parlo anche lei delle mie possibili difficoltà (perché in realtà non so se
effettivamente avrò bisogno di un aiuto) e lei mi risponde
“dobbiamo già badare ai pazienti, non possiamo badare
anche a lei”
Le rispondo sorridendo (perché è sempre utile mostrare un
sorriso) che io in realtà sono autosufficienti, che per dieci anni ho cresciuto
io mia figlia e che al limite potrebbe servirmi un aiuto per capire ad esempio
se la flebo è terminata oppure no. Mi risponde anche lei rassicurata perché d’altra
parte
1-
Alla flebo devono pensarci loro e non io
2-
In fondo ormai le flebo sono concepite in
modo tale che quando terminano l’aria non entra nella vena
Sembrano tutti tranquilli, tutti tranne me.
Per non bastare poi accade che qualcuno perde le analisi
del sangue e l’anestesista sembra pure tranquillo “se non si trovano le
rifacciamo il giorno dell’intervento”
E se sei tranquillo tu…
E c’è un’infermiera poi che sembra avere una fretta
esagerata. Si può superare sì, ma è un motivo aggiuntivo di ansia.
E qui arriviamo alla parolina magica: ANSIA
Immaginate questo mix di preoccupazione per tua figlia
che per la prima volta si sottopone ad un’anestesia totale (ma lei è in realtà
curiosa e affascinata all’idea di addormentarsi senza la propria volontà)
Non sai come sarà dopo l’intervento e non hai nemmeno la
certezza che qualcuno ti aiuterà.
Io intanto metto nel mio zaino di sopravvivenza oltre al
bastone due (no anzi erano tre) torce di dimensioni diverse. Perché quando hai
la retinite pigmentosa e sei più cieca che vedente ti servono sia un bastone
che delle buone torce.
Poi un quadernone e un pennarello nero a punta grossa perché
se Nina non può parlare almeno mi può scrivere. Salviettine, asciugamani, un
plaid che non si sa mai…
E poi arriva il giorno dell’intervento. Immagino che quel
giorno tutti abbiano fretta e non appena arriviamo ci salutano con un bel
“Presto muoviamoci!”
E invece no. Arriviamo con calma, Nina indossa il suo
pigiamino nuovo ed è super gasata come se stesse per andare al cinema
“E’ la prima volta che vado in giro in pigiama!” mi dice
saltellando e facendo mille domande (soprattutto sul sonno indotto dall’anestesia)
E io mi sforzo di mostrarle la parte meno preoccupata,
quella più pragmatica che ha solo bisogno di capire dove si trova la porta del
bagno, quali sono i punti di riferimento migliori, l’anta del nostro armadio, l’armadietto,
il pulsante per le emergenze e l’interruttore della luce e soprattutto Nina
ascolta tutto quello che ti dicono di fare e fallo così come ti dicono, non
prendere iniziative non fare troppe domande, respira, respira profondamente! E infine
ci avviamo verso la sala operatoria. L’infermiera che c’è in reparto è molto rassicurante,
mi ricorda la moglie del maestro di Judo di Nina, ed ha le sue stesse movenze. Il
portantino invece è un uomo adorabile che oltre a fare il portantino fa anche
il pizzaiolo in un posto di cui ci dice il nome ma noi lo dimentichiamo dopo
due secondi. E’ una persona straordinariamente dolce, mi prende il braccio, con
delicatezza gli mostro che in realtà si fa al contrario: chi non ci vede si
appoggia al braccio di chi ci accompagna. E’ affascinato da Nina e dalla sua
curiosità. Entro nella sala preoperatoria imbacuccata di cuffia, camicie e copri
scarpe. Quando entriamo lui non mi molla un momento.
Preoccupazione nuova: ho perso il conto dei giri che
abbiamo fatto per entrare!!!!
Ma lui, il portantino che si chiama come il mio
psicoqualcosa non mi lascia un solo attimo anzi si sposta giusto per andare a
prendere qualcosa e dice
“vi raccomando la signora”
E tutti annuiscono.
Il primario aggiunge
“Tutto sotto controllo”
Poi inizia la fase per l’anestesia, Nina fa qualche
domanda sulla macchinetta del cuore e accenna al gioco del chirurgo sulla
playstation
“Anche voi avete un cucchiaino in sala operatoria?”
E racconta che lo zio per fare un intervento al cuore su
quel gioco ha dovuto rompere il torace a martellate, ma proprio sul più “bello”
sono dovuta uscire.
Il dopo intervento è stato durissimo, Nina (pensavo che
non avesse parlato almeno per le prime ore) si lamentava per il dolore e per l’anestesia.
Il portantino mi fa appoggiare alla barella ed andiamo verso la stanza. Il papà
di Nina ed i miei genitori erano comunque con noi, nessuno li ha fatti andare
via o ha fatto obiezioni sulla loro presenza. Dopo un po’ di irrequietezza Nina
finalmente si addormenta. Il primario passa diverse volte per controllarla e
anche il portantino. Mi dice “Ninuzza diventerà qualcuno”
E me lo dice con convinzione e ammirazione. Rimango colpita
e commssa da quelle sue parole.
Poi c’è lei, la nostra compagna di stanza (una stanza
piccolina, perfetta per noi retinopatici) è una ragazza russa alla quale il figlio
di due anni aveva rotto il setto nasale lanciandole un oggetto pesantissimo. Lei
era straordinaria. Non appena mi sentiva muovere si fiondava dal letto per
chiedermi se avevo bisogno di aiuto. La notte mi alzo per andare in bagno e mi
trovo due infermiere e un infermiere, la compagna di stanza, l’universo intero
attorno a me. Esagerati! Ma ovviamente non posso che dire “Grazie, siete molto
gentili, davvero, ma in queste ore di luce ho memorizzato il percorso, è ottima
l’idea di colorare gli stipiti di blu (o forse era verde scuro? O nero?) perché
così si vedono meglio e di mettere la panca vicino la porta d’ingresso del
bagno e il bagno dei disabili non appena si entra”
Nina dorme tranquillamente tutta la notte, ad un certo
punto parla nel sonno ad alta voce, poi anche lei si sveglia per andare in
bagno, l’accompagniamo io e la compagna di stanza. Tutto sembra procedere bene.
L’indomani dimissioni e via. Prima dell’intervento avevo pensato che il giorno
delle dimissioni avrei detto al primario e agli infermieri che la disabilità non
è un privilegio, ma una condizione che potrebbe accadere a chiunque in
qualsiasi momento, ma alla fine non l’ho fatto.
Loro sono stati più disponibili di quanto non mi sarei
aspettata ed io, io me la sono cavata nonostante tutto. L’ansia ci toglie dieci
anni di vita e ci offusca la ragione, poi in fondo tutto è molto più semplice.
PERO’…
Però dovrebbe essere appunto tutto più semplice anche
prima. Quando una mamma con una disabilità chiede di poter assistere il figlio
o la figlia non ci devono essere incertezze, divergenze, non bisogna “sperare”
che tutto vada bene. Bisogna avere una certezza, la certezza che riceverai per
legge un’assistenza particolare.
Non è un priviligio e non dovrebbe neppure dipendere dai
sorrisi o dalla buona volontà degli infermieri, dovrebbe funzionare così e
basta.
Ma ogni volta accade la stessa cosa, ogni momento della
nostra vita e della vita di chi ci sta accanto è soprattutto intriso di ansia
incertezze e dite incrociate perché tutto vada bene
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