domenica 10 febbraio 2019

un giorno (ed una notte) in ospedale

Il pigiamino di Nina dentro le lenzuola nel lettino d'ospedale


Sono trascorse due settimane e mi sembra che sia trascorsa già un’eternità. Si doveva fare, prima o poi e così quel giorno è arrivato. Lo avevo immaginato sin dal momento in cui aveva avuto la sua prima gastroenterite ed i gemelli della mia amica finirono entrambi in ospedale. Io non sono riuscita ad immaginare come sarebbe stato per me ritrovarmi in una stanza d’ospedale con una bimba piccola a dover stare attenta che non combinasse casini con l’ago della flebo o a dover ritrovarmi a cercare oggetti sul comodino, a terra, ovunque o non trovare il bagno o non riuscire ad afferrare in tempo qualcosa che qualcuno mi porgeva…
Sono trascorsi invece dieci anni. Adenoidi e tonsille avevano ormai le dimensioni di due arance (tonsille) e olive ascolane (adenoidi) e dovevano necessariamente essere tolte e questo avrebbe comportato un ricovero ospedaliero.
Ogni mamma tra virgolette normale si preoccupa solo ed esclusivamente dell’intervento. Di comprare il corredo nuovo per l’ospedale, di programmare le giornate di lavoro e di rassicurare il proprio figlio o la propria figlia. Nel mio caso le cose cambiano, c’è una piccola variazione e le preoccupazioni si amplificano.
Incominciamo da Nina: non ha niente che non va ma è eccessivamente emotiva, non le piacciono gli scherzi, il sarcasmo, la fanno sbarellare le contraddizioni e fondamentalmente se inizia una domanda deve arrivare fino alla fine anche se dovesse esserci il giudizio universale in corso. Semplicemente questo, niente di più. I problemi iniziano quando qualcuno ci spiega che bisogna restare anche la notte. Dico che resto io perché sono la mamma
MA…
“Sono una mamma che non ci vede molto bene, mi chiedevo e vi chiedevo se sia possibile la presenza di un’altra persona oltre la mamma”
“Faccia restare solo la nonna allora”
Mi rispondono.
No. Sono io la mamma, perdonatemi non voglio fare l’egoista, voglio sono stare accanto a mia figlia, e chiedo solo la presenza di una persona in caso di necessità.
Il primario dapprima mi dice che dovrebbe restare la nonna ma quando spiego che ho la retinite pigmentosa lui si sente rassicurato (ma non so perché)
Mi dice che non ci sono problemi, resto solo io perché non c’è spazio per far stare un’altra persona e che comunque il personale infermieristico verrà avvisato della mia (nostra) presenza e se dovessi avere bisogno non esiteranno a darci una mano. Ma poi per il corridoio incontro la caposala, parlo anche lei delle mie possibili difficoltà (perché in realtà non so se effettivamente avrò bisogno di un aiuto) e lei mi risponde
“dobbiamo già badare ai pazienti, non possiamo badare anche a lei”
Le rispondo sorridendo (perché è sempre utile mostrare un sorriso) che io in realtà sono autosufficienti, che per dieci anni ho cresciuto io mia figlia e che al limite potrebbe servirmi un aiuto per capire ad esempio se la flebo è terminata oppure no. Mi risponde anche lei rassicurata perché d’altra parte
1-         Alla flebo devono pensarci loro e non io
2-         In fondo ormai le flebo sono concepite in modo tale che quando terminano l’aria non entra nella vena
Sembrano tutti tranquilli, tutti tranne me.
Per non bastare poi accade che qualcuno perde le analisi del sangue e l’anestesista sembra pure tranquillo “se non si trovano le rifacciamo il giorno dell’intervento”
E se sei tranquillo tu…
E c’è un’infermiera poi che sembra avere una fretta esagerata. Si può superare sì, ma è un motivo aggiuntivo di ansia.
E qui arriviamo alla parolina magica: ANSIA
Immaginate questo mix di preoccupazione per tua figlia che per la prima volta si sottopone ad un’anestesia totale (ma lei è in realtà curiosa e affascinata all’idea di addormentarsi senza la propria volontà)
Non sai come sarà dopo l’intervento e non hai nemmeno la certezza che qualcuno ti aiuterà.
Io intanto metto nel mio zaino di sopravvivenza oltre al bastone due (no anzi erano tre) torce di dimensioni diverse. Perché quando hai la retinite pigmentosa e sei più cieca che vedente ti servono sia un bastone che delle buone torce.
Poi un quadernone e un pennarello nero a punta grossa perché se Nina non può parlare almeno mi può scrivere. Salviettine, asciugamani, un plaid che non si sa mai…
E poi arriva il giorno dell’intervento. Immagino che quel giorno tutti abbiano fretta e non appena arriviamo ci salutano con un bel
“Presto muoviamoci!”
E invece no. Arriviamo con calma, Nina indossa il suo pigiamino nuovo ed è super gasata come se stesse per andare al cinema
“E’ la prima volta che vado in giro in pigiama!” mi dice saltellando e facendo mille domande (soprattutto sul sonno indotto dall’anestesia)
E io mi sforzo di mostrarle la parte meno preoccupata, quella più pragmatica che ha solo bisogno di capire dove si trova la porta del bagno, quali sono i punti di riferimento migliori, l’anta del nostro armadio, l’armadietto, il pulsante per le emergenze e l’interruttore della luce e soprattutto Nina ascolta tutto quello che ti dicono di fare e fallo così come ti dicono, non prendere iniziative non fare troppe domande, respira, respira profondamente! E infine ci avviamo verso la sala operatoria. L’infermiera che c’è in reparto è molto rassicurante, mi ricorda la moglie del maestro di Judo di Nina, ed ha le sue stesse movenze. Il portantino invece è un uomo adorabile che oltre a fare il portantino fa anche il pizzaiolo in un posto di cui ci dice il nome ma noi lo dimentichiamo dopo due secondi. E’ una persona straordinariamente dolce, mi prende il braccio, con delicatezza gli mostro che in realtà si fa al contrario: chi non ci vede si appoggia al braccio di chi ci accompagna. E’ affascinato da Nina e dalla sua curiosità. Entro nella sala preoperatoria imbacuccata di cuffia, camicie e copri scarpe. Quando entriamo lui non mi molla un momento.
Preoccupazione nuova: ho perso il conto dei giri che abbiamo fatto per entrare!!!!
Ma lui, il portantino che si chiama come il mio psicoqualcosa non mi lascia un solo attimo anzi si sposta giusto per andare a prendere qualcosa e dice
“vi raccomando la signora”
E tutti annuiscono.
Il primario aggiunge
“Tutto sotto controllo”
Poi inizia la fase per l’anestesia, Nina fa qualche domanda sulla macchinetta del cuore e accenna al gioco del chirurgo sulla playstation
“Anche voi avete un cucchiaino in sala operatoria?”
E racconta che lo zio per fare un intervento al cuore su quel gioco ha dovuto rompere il torace a martellate, ma proprio sul più “bello” sono dovuta uscire.
Il dopo intervento è stato durissimo, Nina (pensavo che non avesse parlato almeno per le prime ore) si lamentava per il dolore e per l’anestesia. Il portantino mi fa appoggiare alla barella ed andiamo verso la stanza. Il papà di Nina ed i miei genitori erano comunque con noi, nessuno li ha fatti andare via o ha fatto obiezioni sulla loro presenza. Dopo un po’ di irrequietezza Nina finalmente si addormenta. Il primario passa diverse volte per controllarla e anche il portantino. Mi dice “Ninuzza diventerà qualcuno”
E me lo dice con convinzione e ammirazione. Rimango colpita e commssa da quelle sue parole.
Poi c’è lei, la nostra compagna di stanza (una stanza piccolina, perfetta per noi retinopatici) è una ragazza russa alla quale il figlio di due anni aveva rotto il setto nasale lanciandole un oggetto pesantissimo. Lei era straordinaria. Non appena mi sentiva muovere si fiondava dal letto per chiedermi se avevo bisogno di aiuto. La notte mi alzo per andare in bagno e mi trovo due infermiere e un infermiere, la compagna di stanza, l’universo intero attorno a me. Esagerati! Ma ovviamente non posso che dire “Grazie, siete molto gentili, davvero, ma in queste ore di luce ho memorizzato il percorso, è ottima l’idea di colorare gli stipiti di blu (o forse era verde scuro? O nero?) perché così si vedono meglio e di mettere la panca vicino la porta d’ingresso del bagno e il bagno dei disabili non appena si entra”
Nina dorme tranquillamente tutta la notte, ad un certo punto parla nel sonno ad alta voce, poi anche lei si sveglia per andare in bagno, l’accompagniamo io e la compagna di stanza. Tutto sembra procedere bene. L’indomani dimissioni e via. Prima dell’intervento avevo pensato che il giorno delle dimissioni avrei detto al primario e agli infermieri che la disabilità non è un privilegio, ma una condizione che potrebbe accadere a chiunque in qualsiasi momento, ma alla fine non l’ho fatto.
Loro sono stati più disponibili di quanto non mi sarei aspettata ed io, io me la sono cavata nonostante tutto. L’ansia ci toglie dieci anni di vita e ci offusca la ragione, poi in fondo tutto è molto più semplice.
PERO’…
Però dovrebbe essere appunto tutto più semplice anche prima. Quando una mamma con una disabilità chiede di poter assistere il figlio o la figlia non ci devono essere incertezze, divergenze, non bisogna “sperare” che tutto vada bene. Bisogna avere una certezza, la certezza che riceverai per legge un’assistenza particolare.
Non è un priviligio e non dovrebbe neppure dipendere dai sorrisi o dalla buona volontà degli infermieri, dovrebbe funzionare così e basta.
Ma ogni volta accade la stessa cosa, ogni momento della nostra vita e della vita di chi ci sta accanto è soprattutto intriso di ansia incertezze e dite incrociate perché tutto vada bene


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